Ricordo di Antonio Meucci

BASILIO CATANIA

(Passi della vita di Antonio Meucci a Firenze, tratti dal primo volume del libro di Basilio Catania "Antonio Meucci. L'inventore e il suo tempo", letti al Columbus Centre, Toronto, ON, il 13 aprile 2003, 3:00 PM, in occasione del 195° anniversario della nascita di Meucci)

Amici carissimi,

Vogliamo oggi celebrare il 195° anniversario della nascita di Antonio Meucci, ricordando la vita di quest'uomo, che tutti onoriamo come l'inventore del telefono, ma che presenta aspetti e vicende umane di inusitata peculiarità e dense di commoventi episodi.

Nel mio libro "Antonio Meucci - L'inventore e il suo tempo" ho cercato di rappresentare questa commozione nella parte testuale, relegando gli aspetti squisitamente tecnici in corpose appendici. Questo libro non è in vendita ed è da tempo esaurito. Ne ho conservato una copia che consegno in questa occasione al mio esimio amico Professor Franco Gaspari, presidente del Comites, che ha organizzato la mia visita in Toronto e che ringrazio per l'onore accordatomi. Gli ho anche affidato un CD nel quale è riprodotta tutta la parte testuale del mio libro nonché la traduzione in inglese e la serie completa dei miei articoli e interviste e dei documenti base che costituiscono la prova delle anteriorità di Meucci. Chiunque potrà averne una copia dietro rimborso delle sole spese di riproduzione.

Leggerò da questo libro alcuni passi significativi della vita di Meucci in Firenze, dove visse fino al 1835, lasciando ad altra occasione di citare altri passi relativi all'Avana, dove visse dal 1835 al 1850, e negli Stati Uniti, a Clifton, Staten Island, non lontano da New York, dove visse dal 1850 fino alla morte, che lo colse il 18 ottobre 1889.

La fanciullezza

Antonio Santi Giuseppe Meucci nacque a Firenze, nel popolo di S. Frediano, cura di Cestello, in Via Chiara n. 475, alle cinque del mattino di mercoledì 13 aprile 1808. Era il primogenito di Amatis di Giuseppe Meucci, di anni 32, e di Maria Domenica di Luigi Pepi, di anni 22. Il popolo di S. Frediano apparteneva al quartiere (o delegazione) di S. Spirito.

Il giorno dopo, giovedì 14 aprile, il neonato Antonio fu portato al Battistero di S. Giovanni, dove, tenuto in braccio dal compare Antonio Tassi, ricevette il battesimo da padre Vincenzo Boni, uno dei padri battezzieri del Duomo.

Nel Battistero di S. Giovanni - detto anche Battistero del Duomo poiché si erge proprio di fronte alla cattedrale di S. Maria del Fiore, il Duomo di Firenze - venivano officiati tutti i battesimi dei nati in città, non essendovi, fino al 1940, altre fonti battesimali nelle chiese cittadine, se si eccettua quella dello Spedale degli Innocenti, di cui si accennerà avanti. Di ciò non si lagnavano di certo i fiorentini, nemmeno i più poveri, anche se questi, per portare a S. Giovanni la puerpera, il neonato, i parenti e il compare dalle loro case di periferia, dovevano sobbarcarsi la spesa aggiuntiva di un paio di carrozze, che si facevano bastare, stringendosi un pò. Difatti, quella cerimonia nell'austero ottagono di stile romanico, situato nel centro della città, era anche il simbolo del benvenuto dato da una grande madre, Firenze, ad ogni suo nuovo figlio, oltre che un modo degnissimo per iniziare una vita.

Come era costume, dopo il battesimo, i genitori del neonato, insieme al piccolo seguito, si recarono a messa nel Duomo, lasciando il battistero attraverso la monumentale porta di bronzo del Ghiberti, detta "del Paradiso", secondo l'appellativo datole da Michelangelo.

Il dolcissimo e chiarissimo cielo d'aprile, appena lavato dalla pioggia notturna, faceva da sfondo a quel magico gruppetto di tre gioielli architettonici - il Battistero, il leggiadro campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi - che parevano essersi dati convegno nella piazza, assieme ai profumi della primavera.

Fu, come ben si può comprendere, un momento di intensa commozione per Amatis e Domenica, che a turno stringevano al petto quel fagotto imbottito di lana dal quale proveniva un caldo odore di vita, la prima vita che essi avevano fatto sbocciare.

Il nonno Giuseppe, padre di Amatis, "alto e schietto" come i carducciani cipressi delle colline toscane, e con un paio di baffi arricciati all'insù, aveva gli occhi lucidi, non si capiva bene se per orgoglio o per dissimulata commozione. Di Meucci - pensava - a Firenze, ce n'erano tanti, che nemmeno si conoscevano tra loro o si sapeva da dove fossero spuntati. Ma nonno Giuseppe sentiva che questo primo figlio di Amatis, Antonio di Amatis di Giuseppe Meucci (si usava dire così allora, per districarsi fra i molti omonimi in cui si soleva incappare, dato che le famiglie capostipiti della città erano poche), avrebbe fatto parlare di sé il mondo intero. Tutti i nonni sono così…

Anche il nonno materno, Luigi, era felice, sebbene, come al solito, fosse eccessivamente apprensivo per la figlia Domenica. Infatti le caracollava a fianco, sorreggendola e continuando a chiederle se non si sentisse troppo debole dopo il difficile parto, e dicendole che avrebbe fatto meglio a rimanere a letto, tanto, al battesimo, potevano pensarci gli uomini da soli… almeno per quello!

Dopo la messa, tutti a casa. Gli uomini - tra i quali vi era anche Francesco Tassi, padre del compare e grande amico di Giuseppe Meucci - dichiararono che avrebbero fatto volentieri due passi a piedi (anche per risparmiare una carrozza). Invece Domenica, con in braccio il piccolo Antonio, le nonne, ed il nonno Luigi, che non abbandonava la figlia un solo istante, presero una carrozza, fra le tante che stazionavano intorno al battistero, e si fecero portare a casa, in Via Chiara, non senza raccomandare agli uomini di non far tardi, poiché si sarebbe pranzato all'una in punto.

Amatis, padre felice, si sentiva addosso un ardore sovrumano e propose di passare l'Arno sul Ponte Vecchio e di qui dirigersi a Palazzo Pitti, per poi tornare a casa, svoltando alla destra di Piazza Pitti verso la Via S. Agostino. Infatti, la Via Chiara coincideva con quel corto tratto dell'odierna Via de' Serragli, che è compreso fra Via del Campuccio e Via S. Agostino. Quello suggerito da Amatis non era certo il tragitto più breve, ma era indiscutibilmente il più… nobile. Sì, perché i popolari quartieri di oltr'Arno - cioè quelli sulla riva sinistra dell'Arno - come quello di S. Spirito, che comprendeva il popolo di S. Frediano, non offrivano certo all'occhio le viste pregevoli della riva destra (proprio al contrario della rive gauche di Parigi), ad eccezione, per l'appunto, della vasta area di Palazzo Pitti e del retrostante raffinato giardino di Boboli.

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L'Accademia

… Fu il celebre Sig. Felice Gori, che risiedeva nel Conservatorio e vi dirigeva il Museo delle Macchine ed il Laboratorio per la fabbricazione di Macchine e Strumenti di Fisica, ad accompagnare Antonio a fare una visita del Conservatorio, nel suo primo giorno di frequenza, all'inizio del secondo anno di Accademia. Si trovarono alle undici in punto all'ingresso dell'edificio, in Piazza S. Marco, da pochi anni ristrutturato da Giuseppe del Rosso, che conservò, del preesistente Convento di S. Caterina, praticamente soltanto la pianta …. Superato il vestibolo ed il guardaroba, Antonio rimase piacevolmente sorpreso dalla vista del grande chiostro interno, alquanto più grande e più alto di quello della sede principale di Via del Cocomero, ed il Sig. Gori lasciò che il neo scolaro vi indugiasse un poco.

Un chiostro sembra davvero possedere la virtù di elevare lo spirito al livello del Creatore. Sarà per quella cintura di muri - alleggeriti dagli archi ricorrenti, ma con la fuga di linee verso il cielo - che, proteggendo dai rumori della vita che tumultua all'esterno, distende lo spirito. O per i colori e i profumi del giardino, particolarmente curato e armonioso, che allietano la vista e l'odorato. Oppure per la frescura e il gioco delle ombre, che esaltano la purezza del pensiero. Fatto sta che, in quelle condizioni, propizie per l'apprendimento come per la contemplazione, gli insegnamenti dei Maestri scivolano nella mente degli adolescenti come l'acqua dai monti al piano.

Il Sig. Gori scosse il braccio di Antonio, riportandolo a pensieri più concreti: "Vedi, Meucci, qui c'è il Gabinetto del Presidente con la sua Anticamera… dalla parte opposta ci sono le due stanze per la Contabilità. Poi c'è l'ingresso alla Scuola dei Fiori, fatta apposta per gli artigiani della ceramica, e da qui si accede anche alle stanze del Direttore e del Sottodirettore…". Poi Gori gli mostrò tutta l'ala sinistra che era assegnata alla Classe di Musica dell'Accademia, la quale comprendeva le quattro Scuole di: Musica, Declamazione, Contrappunto e Violino. Finalmente, attraverso un lungo corridoio - sul quale si apriva un certo numero di sale condivise dalle varie scuole per le oratorie - giunsero al lato posteriore della Scuola di Chimica, incontrando prima le due stanze di deposito dei prodotti chimici, poi la stanza del combustibile per il Laboratorio, poi ancora il giardino destinato alla Chimica, la stanza del Capo Servizio ed infine il grande locale destinato alla vera e propria Scuola di Chimica.

La scuola era aperta, e vi era una dozzina di allievi che armeggiavano con alambicchi, storte e boccette di ogni genere, seguiti attentamente dal celebre Professore Carlo Calamandrei. Antonio era particolarmente affascinato dalla chimica, come da ogni cosa che, pur essendo piccola, nascondesse un grande potere. Il Sig. Gori lasciò che il neo-scolaro si attardasse un pò di più in Laboratorio, dopo averlo presentato al famoso professore. Uno degli allievi gli disse che i giorni di apertura della scuola di chimica erano il martedì e il venerdì, dalle ore undici alle ore una pomeridiana. Il grande Calamandrei si fece premura di sottolineare come, particolarmente nella chimica e nella meccanica, fosse importante seguire i precetti di Galileo e di Leonardo, cioè di riunire "la speculativa alla pratica… in guisa che la Pratica offra le difficoltà dei fenomeni e la Teoria tolga le prime e spieghi i secondi, ed a vicenda correggano i loro errori, e si comunichino le loro verità."

Riprendendo il braccio di Antonio, Gori salutò Calamandrei e proseguì il giro giungendo al vero e proprio Conservatorio d'Arti e Mestieri, che iniziava con le Sale per la raccolta di Macchine e Modelli. Queste comprendevano il Museo delle Macchine, seguito dalle tre stanze che formavano il Laboratorio del Sig. Gori, tutte sotto la giurisdizione del medesimo, che questi, ovviamente, descrisse con dovizia di particolari.

Gori era particolarmente fiero di avere riparato e rimesso in funzione non poche macchine tra quelle esposte al Museo di Fisica e di Scienze Naturali, anch'esso riordinato - come l'Accademia - per volere del Granduca Pietro Leopoldo. Il Granduca, dopo il riordino del museo, eseguito dall'Abate Fontana, lo ribattezzò Museo di Fisica e di Scienze Naturali - aggiungendo la parola Fisica alla denominazione precedente - e ne ordinò l'apertura al pubblico fin dal 1775. In esso prestavano la loro opera, all'epoca di cui si parla, valenti professori, come Giuseppe Pigri, che dirigeva anche la Scuola di Meccanica dell'Accademia. Inoltre, per merito del Conte Girolamo Bardi, che dirigeva il Museo, fu tenuto in esso l'insegnamento libero delle scienze e curata la pubblicazione degli Annali del Museo Imperiale di Fisica e di Storia Naturale di Firenze, con scritti dei professori Gazzeri, Targioni Tozzetti, Uccelli e Babbini. E' da notare che quest'ultimo teneva anche, in Firenze, una Cattedra di Fisica Teorica e Sperimentale. Il Sig. Gori disse a Meucci che di tanto in tanto la Scuola di Meccanica dell'Accademia organizzava visite guidate al Museo - soprattutto allo scopo di illustrare dal vivo e studiare le molte e meravigliose macchine di Galileo - cosicché Antonio avrebbe potuto approfittarne, per migliorare la sua cultura.

Subito dopo il Laboratorio del Sig. Gori vi erano le Sale per le adunanze degli Artigiani. Tali adunanze, tenute con frequenza mensile e a volte bisettimanale, erano molto importanti per l'osmosi, a volte fin troppo vivace, fra gli insegnanti delle Scuole dell'Accademia e gli artigiani, potenziali utenti delle stesse. Il giro di visita terminò con una sbirciata al Gabinetto del Professore di Matematiche ed alla Scuola di Matematiche (comprendente anche l'Idraulica e la Filosofia), confinante con l'ampia Sala d'Esposizione, adibita per l'appunto alle mostre delle opere degli allievi dell'Accademia al pubblico, e corredata di un pratico Vestibulo.

Così terminò la visita, ed anche il primo giorno di Conservatorio di Antonio Meucci.

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In carcere

[Meucci fu condannato perché durante certi festeggiamenti del Granducato con fuochi d'artificio, aveva inventato dei razzi molto potenti, che sfuggirono al suo controllo e finirono sulle case antistanti Palazzo Vecchio, dal quale venivano lanciati]

 

La procedura formale per entrare in carcere era la seguente: il condannato veniva invitato a presentarsi spontaneamente al Commissariato per una certa ora, generalmente alle cinque di sera. Se (cosa molto rara) egli non si presentava, venivano mandati a cercarlo i cursori, specie di messi, generalmente disarmati, dello stesso Commissariato ed, in più, gli sarebbe stata inflitta una multa di Lire cinquanta (pari a circa 443.000 lire d'oggi).

Amatis accompagnò il figlio Antonio dal Commissario Callepi quella sera del 4 giugno, trattenendo a stento le lacrime e la rabbia. Antonio era come imbambolato e incredulo: aveva perso la coscienza di ciò che gli stava accadendo, per la prima volta nella sua vita, a soli diciassette anni. Avvertiva, però, il peso della vergogna, per ciò che avrebbero detto i suoi professori, in particolare Gori e Calamandrei, e l'umiliazione per gli sguardi ed i lazzi pungenti che gli avrebbero elargito quei rampolli dei ricchi - e giammai inquisiti - borghesi, suoi compagni d'Accademia.

Callepi mise amichevolmente le braccia intorno alle spalle di Amatis e di Antonio e fu sorpreso di trovarle quasi alla stessa altezza. Com'era cresciuto - pensò - quel ragazzo, che conosceva fin da bambino… Poi, volgendosi verso Amatis, gli disse: "Oh, che thu thi preóccupi, Amáthoo (gran parte degli amici lo chiamavano Amato, anziché Amatis) - che il thu figliolo mangi a spese del Grandúha per qualche jiórno?"

"Già - ribatté Amatis - e i tre jiórni a pane e acqua? E il marchio di prejudiháto?"

Ma Callepi aveva una risposta anche per questo. Gli disse che al Buon Governo interessava solo far in modo che la gente si impaurisse, al punto da costringerla a fare sempre il suo dovere, ma che, in fondo, non desiderava infierire più del necessario. "Amatho - gli disse - thu se' un maestro di come si scrive a quelli in alto… E thu, scrivi una bella súppliha, lacrimevole e ossequiosa, ma sopratthuttho piena dei buoni proposithi del tuo Tonino, e vedrai che gli ridúhono la pena… Suvvia, corri a casa a scrivere, che al tu' figliolo ci penso io…""

Antonio sentì il chiavistello scorrere fra gli occhielli della serratura, all'esterno della robusta porta di legno della sua cella, sulla quale era aperto un piccolo spioncino. Poco prima aveva incrociato, sulle scale che dagli uffici del commissariato scendevano al sotterraneo adibito a prigione, un altro giovane, che lasciava la prigione. "Meno male che siamo di giugno!…" - gridò ad Antonio, voltandosi mentre saliva le scale di fretta. Biascicò qualche altra parola che Antonio non poté afferrare, confuso ed emozionato, com'era. Dalla cella, udì Callepi chiamare un certo Angiolo (un generico famestieri, che si adattava a fare un pò di tutto, nel commissariato, anche il carceriere): "Oh, Agnolo… - gli urlava, apposta per farsi sentire da Antonio - stasera a Tonino gli dai un bel pezzo di quella focaccia di cipolle che ha fatto la tu' moglie e un bel bicchiere di Chianti, dato che ha quasi diciott'anni. Domani, però, gli si dà il rancio del Buon Governo, capítho?… E riempigli la brocca d'acqua… ch'è vótha…"

Meno male che c'è qualcuno che ti muove al riso nelle situazioni tristi. Ma i muri di quella cella non ridevano di certo. A parte le sconcerie d'ogni sorta che li tappezzavano - ma a quelle Antonio c'era abituato dalla pratica coi soldati e con la fauna variopinta dei barrocciai e cavalcanti che stazionavano nel cosiddetto antiporto della Porta S. Niccolò - vi si potevano leggere apprezzamenti personali non precisamente lusinghieri nei confronti del Granduca (e della Granduchessa), invettive politiche contro i tiranni (preti compresi) e pressanti appelli a liberarsi dallo straniero e a fare l'Italia unita.

Antonio pensò che se non fosse stato messo in prigione non lo avrebbe nemmeno sfiorato il pensiero di quest'altro mondo, nascosto alla vista dei fedeli sudditi. Si domandò anche come era possibile che nelle scuole insegnassero ad essere laboriosi, frugali, onesti ed obbedienti, quando dalla parte di coloro che detenevano il potere si praticavano le cose opposte. Ma si ricordò di ciò che gli diceva nonno Giuseppe, proprio all'epoca della sua ammissione in Accademia: "Ricordati, Antonio, che nelle scuole del popolo insegnano tutto ciò che occorre sapere per servire i ricchi e nelle scuole dei ricchi insegnano tutto ciò che occorre sapere per comandare ai poveri. Perciò, se ti dicono che una cosa è male, vuol dire che è male per i padroni, non che è male per te!"

L'arrivo di Angiolo con la focaccia, il vino e la brocca dell'acqua lo distolse dai suoi pensieri. Con gli occhi bassi, Angiolo depose il tutto sul rozzo tavolo di legno, che era sistemato, con un panchetto, in mezzo alla cella, e se ne andò come era venuto, cioè senza dire una parola, e zoppicando vistosamente. Antonio imparò a riconoscerlo nei giorni successivi, dalla cadenza sincopata del suo passo.

La cella, prevista per due carcerati, era momentaneamente occupata soltanto da Antonio, circostanza che non gli dispiacque affatto: infatti, sarebbe potuto capitare con qualche malandrino prepotente che gli avrebbe reso quell'esperienza ancora più dura. Sedette sul panchetto vicino al tavolo, divorò la focaccia con le cipolle e bevve d'un fiato quel Chianti, senza accorgersi che era fortemente annacquato. Poi, esausto, si buttò su uno dei due tavolacci della cella dopo aver raccolto da terra una coperta piena di buchi e maleodorante, che si accomodò alla meglio indosso. Infine, cadde in un sonno profondo. Prima di addormentarsi, intravide quei quattro fasci di luce lunare che, penetrando dall'alto finestrino della cella - chiuso soltanto da due ferri incrociati - gli portavano il freddo saluto della notte, disegnando sul pavimento un rebus insoluto…

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Il teatro

Firenze, d'agosto, è un forno. E meno male, perché solo così ci si possono asciugare le ossa, dato che, per converso, d'inverno è una ghiacciaia. Dev'essere un trattamento per forgiare i fiorentini… Antonio, ormai fuori dall'impiego del Buon Governo, vagava, per l'acciottolato delle strette vie del centro, in cerca di un lavoro qualsiasi, anche se non all'altezza degli insegnamenti ricevuti dall'Accademia.

Aveva pensato al teatro, sia perché vi aveva già lavorato saltuariamente, fin da ragazzo, come aiutante degli attrezzisti, sia perché, comportando esso prevalentemente un impegno di sera, gli avrebbe consentito di svolgere di giorno altre attività. Infine, da quello che aveva saputo dal suo compagno di cella, Lamberto, gli sembrava di poter sperare in un ambiente di lavoro decisamente più aperto o, comunque, meno oppressivo. Da sempre, infatti, il mondo dello spettacolo è stato la fucina di idee nuove, espresse con largo anticipo sui tempi, e con quella quasi sfrontata spregiudicatezza, alimentata dalla licenza, tacitamente accordata dai governanti, d'esser criticati e persino ridicolizzati, nella finzione teatrale. D'altra parte, come ben sa ogni saggio governante, è meglio che il popolo si sfoghi in teatro, anziché in piazza.

Ma in agosto i teatri erano quasi tutti chiusi, almeno quelli di un certo livello, come il prestigioso Teatro della Pergola. Antonio provò, dunque, al più popolare Teatro Giglio (ex Teatro della Quarconia), situato all'incrocio tra Via de' Cerchi e Via de' Cimatori, nel quartiere di S. Croce, a un paio di isolati dalla piazza del Granduca, sorvolando sulla cattiva reputazione dello stesso.

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Ma al Teatro della Pergola si facevano cose ben più strabilianti.

Ad Antonio, il custode del Teatro della Pergola, certo Dante Margheri, aveva consigliato di tornare verso fine di ottobre di quell'anno (1833) per parlare con l'impresario Alessandro Lanari, perché, al momento, questi era in viaggio per l'Italia e per l'Europa alla ricerca di talenti da scritturare per la prossima stagione, che iniziava in dicembre. Margheri gli disse anche che l'attuale primo macchinista, Artemio Canovetti, cercava proprio un tipo come lui, che cioè avesse frequentato l'Accademia, perché era stanco dei cialtroni che si presentavano come esperti attrezzisti, senza possedere la più pallida nozione di meccanica.

Canovetti aveva ragione d'essere così esigente. Il Teatro della Pergola era un prodigio della tecnica, sotto tutti gli aspetti. Costruito, per volere dei Medici, nel 1656, dal grande architetto Ferdinando Tacca, il Teatro costituì una pietra miliare nella storia dell'architettura teatrale a livello mondiale.

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Alessandro Lanari era, senza ombra di dubbio, il più grande impresario teatrale dell'epoca. Marchigiano di nascita, cominciò la sua carriera di impresario teatrale al Teatro Giglio di Lucca nel 1821, quando aveva trentun anni. Due anni dopo era già in posizione prominente alla Pergola di Firenze, città in cui rimase tutta la sua vita, fino alla morte, avvenuta nel 1862. Egli univa alle doti di scopritore (e di ammaliatore) di talenti quelle di oculato amministratore e di sapiente diplomatico, specie nei riguardi delle superiori autorità. ..........................

Quando Antonio Meucci, accompagnato dal primo macchinista della Pergola, Artemio Canovetti, poté avvicinare il grande Lanari, quasi restò paralizzato dal magnetismo che emanava da quell'uomo, allora poco più che quarantenne. Fortunatamente, non fu necessario che Antonio profferisse parola perché disse tutto lui, Lanari, in un lampo, così velocemente che, quando finì di parlare, sembrò che il grazie di Antonio Meucci giungesse fuori tempo massimo. Ma per Lanari era cosa normale prendere una persona e sconvolgergli la vita, non importa se glie l'avrebbe resa incredibilmente migliore o incredibilmente peggiore di quella che aveva prima. Ad Antonio Meucci - di cui intuì subito il valore, avendo letto negli occhi del genio Canovetti l'interesse per quel giovane, e, nell'attimo successivo, avendo squadrato il giovane Meucci con la coda dell'occhio - vomitò a mitraglia il cambiamento della sua vita, senza una parola di troppo: "Lei prende servizio stasera, fra due ore, come attrezzista e macchinista in aiuto al secondo macchinista Sig. Corsi, ambedue alle dipendenze del Sig. Canovetti. La sua provvigione è di Lire 40 settimanali, ma soltanto per la stagione. Le troverò un altro lavoro per l'estate. Può alloggiare gratuitamente in una stanza degli appartamenti dei macchinisti: Canovetti Le farà vedere. Quello è lo sgabuzzino per i suoi attrezzi. Se farà bene potrà diventare secondo macchinista in capo a un anno. Seguirà la mia troupe nelle tournées in varie città: abbiamo contratti per Roma, Livorno, Ancona, Foligno e Napoli. Buona fortuna!"

La scena si era svolta sulla grande impalcatura del boccascena, invasa da squadre di operai intenti agli ultimi preparativi per la prima d'inaugurazione della stagione. Lanari sparì verso lo stretto e tortuoso corridoio, che attraverso una porticina, sul lato destro del boccascena, portava agli uffici della direzione, nonché al botteghino. Solo Canovetti, visibilmente soddisfatto per il suo protetto, rimase dov'era, a testimoniare che non si era trattato di un sogno o di una finzione teatrale, visto il luogo dove si erano esibiti i personaggi.

Antonio era stranito. Di colpo aveva avuto un lavoro ben pagato, che metteva termine alla sua miseria. Di colpo, per il rispetto con cui Lanari gli aveva parlato, dandogli del Lei, non si sentiva più un ragazzo scapato, ma un uomo, importante. Di colpo… era felice.

Canovetti lo scosse dalla momentanea catalessi, ma in modo garbato e comprensivo. "Signor Meucci - gli disse - stasera non abbiamo bisogno di Lei. Venga domani mattina da me… Le va bene alle dieci? Porti pure le sue cose, così si sistema qui… Vada… vada… E… complimenti!"

"Signor Meucci"… L'aveva chiamato "Signor Meucci"! E chi poi? Il grande Canovetti in persona. Antonio si infilò nello stesso budello che aveva imboccato Lanari, come se stesse per attraversare il tunnel che lo portava dal sogno alla realtà, da un sogno impossibilmente bello verso la cruda realtà di tutti i giorni.

L'uscita e l'entrata del personale e degli artisti del Teatro della Pergola avviene attraverso il minuscolo botteghino, che è situato parecchio a destra dei tre portali dell'entrata principale, questi ultimi facilmente riconoscibili, perchè incoronati da una graziosa pensilina in ferro battuto e vetro, così leggera da far pensare più a un merletto che ad una struttura.

Antonio non poté evitare la piccola folla dai pastrani umidi di pioggia, che si accalcava allo sportello del botteghino per comprare i biglietti. Facendosi strada verso l'uscita, poté captare qualche commento salace verso questo o quel cantante e gli apprezzamenti su alcune parti del corpo di un noto soprano. Fuori piovigginava. Era già sera.

Antonio cercò di raccapezzarsi su quanto gli era accaduto: era entrato di giorno, e ricordava che c'era il sole. Ed era un sole incerto e crucciato. Ora i leggiadri lampioni ad olio, somiglianti a tante piccole case di vetro, abitate da quelle fiammelle gialle e calde, gli ammiccavano dall'alto, con benevola complicità. Le immagini dei loro tralci in ferro battuto si riflettevano, ingrandite e sfuocate, sui grandi lastroni di pietra giustapposti della stretta Via della Pergola, che la pioggia rendeva lucidi, ma non abbastanza da impedirle di sfumare i contorni… Dunque, era sera, ma una sera che sembrava non appartenere a quel giorno…

Sentì un improvviso bisogno di correre… doveva correre per scuotersi, correre dal padre, dalla madre, dai fratelli, dalla sorella… Doveva abbracciarli tutti, anzi, doveva abbracciare il mondo intero, doveva dir loro che la miseria era finita, che ora il Signor Antonio Meucci era pronto a salire la scala di una vita nuova, più felice.

Ester

Ester Mochi era… di due anni e mezzo più giovane di Antonio Meucci, suo futuro marito. ...................

I Mochi abitavano nel popolo di S. Ambrogio, quando nacque Ester. Quando Ester ed Antonio si conobbero, invece, i Mochi abitavano nel popolo di S. Maria Novella ed il padre di Ester, Gaetano, era deceduto. Come la famiglia di Amatis (e come tutte le famiglie povere) si trasferivano continuamente, cosicché la ricerca delle varie residenze risulta oggi molto difficoltosa. Per le famiglie ricche, invece, questo non accadeva, poiché esse abitavano di generazione in generazione lo stesso palazzo, il quale, addirittura, portava il nome del casato, come testimoniano i celebri Palazzi di Firenze e di altre città.

All'età di dieci anni Ester fu mandata come apprendista presso una sarta del quartiere o, come si soleva dire, a bottega. Dopo cinque o sei anni, apprese il mestiere così bene da essere ritenuta idonea - ed assunta - dalla prestigiosa sartoria del Teatro della Pergola, diretta da Isabella Lanari, sorella del già citato e celebre impresario. Al contrario del fratello, si dice che Isabella fosse tanto dolce quanto esperta nel mestiere. Ad esempio, lasciava che le sue sartine più brave - cioè le costumiste - si occupassero qualche volta della prova dei costumi alle attrici più esigenti, il che fruttava loro, molto spesso, regali in denaro ed anche gioielli di valore, specie da parte delle prime donne, che ne possedevano un ricco assortimento, costantemente rifornito dai loro ricchi adoratori.

La Sartoria del Teatro aveva i suoi locali piuttosto distanti dalle attrezzerie del boccascena, soprattutto per proteggere i tessuti ed i costumi dalla polvere e dal grasso delle macchine. Addirittura, nel 1920, fu aperta la Sartoria Teatrale Cerretelli - oggi famosa in tutto il mondo - a fianco del Teatro della Pergola, ma con ingresso separato (pur mantenendosi, dopo tale data, anche l'antica sartoria all'interno del teatro).

Poco prima dell'inizio degli spettacoli, però, era inevitabile che le costumiste corressero sul palco dietro ad attrici e attori per gli ultimi ritocchi, invocati soprattutto dalle prime donne, sull'orlo di una crisi per qualche piccolo difetto nel costume, che avrebbe rovinato il loro look, come si direbbe oggigiorno… Peraltro, la stessa affannosa corsa agli interventi dell'ultimo momento si faceva anche da parte dei macchinisti, per i congegni di scena.

Ciò che colpì Ester, in una di quelle occasioni, fu che, mentre tutti urlavano e si scalmanavano, quel Signor Meucci (così lo sentì chiamare) manteneva una calma ed una gentilezza di modi, quanto mai inusitati in quell'ambiente. Seppe anche che era stimato per la sua abilità nell'inventare nuovi attrezzi e macchine e che era benvoluto da tutti. Perciò, ed anche perché aveva intuito in lui una certa timidezza di carattere, si decise a fare il primo passo per conoscerlo meglio. Sperava anche, così, di liberarsi più facilmente dei bellimbusti che, avendo fatto il pieno alla buvette del teatro, alla fine degli spettacoli molestavano sartine e comparse, per procurarsi un piacevole dessert a basso costo.

Era una sera speciale, quella della prima di un'opera lirica. Di lì a poco, i portoni del Teatro si sarebbero spalancati e la strada sarebbe stata inondata da scroscianti carrozze, dal forte odore di cuoio e di cavalli, ed una folta élite di eleganti dame e cavalieri, amanti del buon teatro, avrebbe adornato l'immenso e lussuoso salone d'ingresso della Pergola, lasciandosi dietro scie di raffinati profumi. Le luci dei molti ed imponenti candelabri del teatro ne avrebbero fatto risaltare la bellezza, ripagando la lunga e meticolosa cura di parrucchieri, cameriere, sarti e profumieri, che avevano confezionato quei personaggi di sogno, i quali, a loro volta, stavano per incontrare altri personaggi, in un altro sogno in cui tutto diveniva possibile, anche ciò che le naturali inibizioni non avrebbero concesso alla vita reale. Era - ed è - la magia del teatro.

Anche oggi, per la popolazione di addetti che si affanna dietro le quinte, il momento in cui si alza il sipario, è un fatto quasi inosservato. Infatti, così come durante tutto lo spettacolo, attrezzisti, soffittisti, costumiste, manovali, ecc., si danno da fare né più né meno di quanto abbiano fatto prima dell'inizio dello spettacolo. Quando, invece, cala il sipario, allora sì, si vede - e si sente - la differenza. Dopo che gli scroscianti applausi e le richieste corali di bis si sono attutiti, per un lasso di tempo si tramutano nel multiforme scalpiccio di passi e nell'assortito chiacchierio dei crocchi che sciamano verso l'uscita, spesso in cerca di altre emozioni fuori dal teatro. E la sala, quasi per incanto, appare subitamente vuota, facendo sembrare i velluti rossi delle poltrone e delle tappezzerie dei palchi e l'oro degli stucchi sulle colonne e sulle balconate, come fossero lì per dileguarsi, non appena l'ondeggiante luce delle candele, ormai giunte al termine del loro viaggio verso la base dei candelabri, si sarà estinta.

Ester si era attardata a bella posta per mettere in atto il suo proposito. Si avvicinò ad Antonio. "Signor Meucci - disse con tutta l'innocenza di cui era capace - ho paura di tornare a casa da sola a quest'ora e… non mi fido di nessuno… qui…… Lei… … dove abita?". Sapeva benissimo che il Signor Meucci abitava lì, nel teatro, ma faceva finta di non saperlo, tanto per giustificare l'implicita richiesta di essere accompagnata a casa. Antonio non aveva nessuna malizia, e non era capace di dire bugie, nemmeno quelle infinitesime o quelle a fin di bene. Non era un merito: era la sua natura. "Io?… - rispose, un pò sorpreso - io… abito proprio qui sopra… Ma mi garberebbe molto di fare due passi prima di andare a dormire… adesso… non ho punto sonno… sono ancora… un poco teso… sa, per qualcosa che fosse andato storto, capisce?… … Lei… … dove abita?". Man mano che parlava si accorgeva che la voce gli si rompeva in gola per l'emozione. Ester non solo era una bella donna (aveva ventiquattro anni, ma ne dimostrava meno), ma sapeva anche vestire con gusto raffinato, gusto che aveva continuamente migliorato con la pratica dell'alta sartoria e con il contatto con le grandi artiste. E, sinceramente, Antonio non si aspettava di essere da lei notato, tra la fauna smagliante dell'ambiente del teatro, in cui un attrezzista non era proprio… nessuno. Tanto meno avrebbe potuto immaginare che quella splendida ragazza sarebbe diventata la sua compagna, per quasi cinquant'anni esatti della sua vita.

Antonio non osò, sebbene lo desiderasse, cingere la vita di Ester, mentre si avviavano all'uscita attraverso il solito budello che portava al botteghino del teatro. L'illuminazione della Via della Pergola era fortunatamente tenue - come è ancora oggi - quindi complice degli innamorati, anche senza luna. E ciò, malgrado il precetto - come riferì l'aretino Fossombroni nel 1781 - che l'illuminazione pubblica dovesse essere equivalente agli angoli delle strade a quella della luna…

Dirigendosi verso S. Maria Novella, nei cui dintorni abitava Ester, non si poteva evitare di attraversare più di un vicolo buio. In questo caso la luna, e ancor più qualche provvidenziale ronda di gendarmi granducali od anche qualche carrozza di passaggio, potevano rendere il cammino meno ansioso. Meglio, però, la compagnia di un aitante giovanotto, ex doganiere, come Antonio Meucci.

Per tutta la strada, fu quasi sempre Ester a parlare; Antonio, sebbene molto felice dell'incontro, si limitava a rispondere alle molte domande che Ester gli poneva, sul suo lavoro e sulla sua vita di tutti i giorni. Antonio seppe che il padre di Ester, Gaetano, era morto da pochi mesi e provò ancora più tenerezza per quella dolce e (apparentemente) indifesa ragazza. Ormai, erano quasi arrivati. Passando dinanzi a quel capolavoro che è la chiesa di S. Maria Novella, Ester la indicò col dito, dicendo: "Vede, Signor Meucci, se mai qualcuno mi vorrà in isposa, mi porterà all'altare in questa chiesa…". Sembrava una bambina, con quel ditino alzato. Alle sue parole facevano da sfondo musicale gli zampilli della leggiadra fontana al centro della piazza, che sembravano prendere l'argento dai raggi di quella luna piena d'aprile. Antonio ed Ester si attardarono un poco, come assorti nei giochi dell'acqua. Si tenevano delicatamente per mano, e rimasero lì senza parole, a lungo, prima di augurarsi la buona notte. Antonio non intese nemmeno l'orologio del campanile suonare le due. Oramai l'orologio dell'amore si era messo in moto nel suo cuore, un amore pulito, che gli avrebbe fatto dimenticare le sventurate vicende della malfamata Osteria del Chiù.

Antonio Meucci ed Ester Mochi si sposarono il 7 agosto 1834 nella chiesa di S. Maria Novella.

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Verso Cuba

A quel tempo, l'Opera italiana era forse al culmine della celebrità, in tutto il mondo e molti impresari stranieri venivano in Italia per scritturare le nostre compagnie teatrali. Don Francisco era appena arrivato dall'Avana - capitale dell'isola di Cuba - dove, dal 1 giugno 1834, era stato insediato Capitano Generale (cioè governatore) l'intraprendente Don Miguel Tacón. Tra i primissimi atti del nuovo Capitano Generale vi fu quello di chiedere al Ministro degli Interni di Spagna l'autorizzazione a costruire un grande teatro, che più tardi prenderà il suo nome: Gran Teatro de Tacón. Don Francisco, braccio destro di Tacón, avrebbe avuto l'incarico sia della costruzione che della gestione del nuovo teatro, divenendone così proprietario ed impresario nello stesso tempo. Tuttavia, mentre l'approvazione alla costruzione del teatro stava seguendo il normale iter burocratico, Don Francisco si stava già dando da fare per scritturare cantanti, danzatori, coristi, solisti e orchestrali, ma anche per reclutare tecnici, operai, sarte, e perfino comparse, inservienti e segretari, allo scopo di creare una sorta di Compagnia Stabile per il nuovo teatro, dato che, nelle intenzioni di Tacón, esso avrebbe dovuto gareggiare con i migliori teatri italiani ed europei dell'epoca.

Don Francisco, da buon catalano, oltre che essere astuto e dotato di un fiuto unico per gli affari, era anche previdente. Poiché egli era anche impresario dell'esistente Teatro Principal - il più importante teatro dell'Avana, fino a quel momento - pensò che avrebbe potuto mettere insieme una troupe in Italia, farla debuttare e recitare per un paio di stagioni al Principal, ed utilizzarla, successivamente, per dar prestigio al nuovo Gran Teatro de Tacón, quando ne fosse stata ultimata la costruzione. Tanto si diede da fare che scritturò ben 81 persone, per i più svariati ruoli e ad ogni livello, disposte a seguirlo all'Avana, con un contratto di cinque anni. Tra esse, Antonio Meucci e la moglie Ester, ai quali Don Francisco offrì condizioni oltremodo allettanti: Ester sarebbe stata assunta come direttrice della sartoria del teatro, e Antonio avrebbe assunto le funzioni di ingegnere, macchinista e disegnatore scenico. Inoltre essi avrebbero potuto alloggiare, a costruzione ultimata, in uno degli appartamenti, che erano previsti nelle dipendenze del nuovo teatro, a somiglianza di quelli esistenti al Teatro della Pergola.

D'altra parte, a Firenze non tirava aria buona per Antonio, dati i suoi precedenti e le sue idee politiche, quindi l'offerta di Don Francisco capitò molto a proposito e fu, perciò, accettata di buon grado dai coniugi Meucci, sposati di fresco e molto giovani per gli incarichi loro proposti. Un problema pratico poteva essere quello che Antonio, avendo pendenze in Tribunale, all'epoca della sua partenza per Cuba, non poteva ottenere il passaporto e, quindi, avrebbe dovuto lasciare il Granducato più o meno clandestinamente. Vi era la possibilità di emigrare senza esibire il passaporto, aggregandosi ad una delle compagnie di Comici o Teatranti Girovaghi (simili ai noti Carri di Tespi), per le quali veniva concesso un passaporto collettivo a nome dell'impresario, in cui era riportato il numero dei teatranti senza specificarne l'identità. Esistevano leggi molto simili, che concedevano siffatti privilegi di transito ai confini a dette compagnie, in quasi tutti gli Stati italiani di allora, con le sole eccezioni del Piemonte e del Lombardo-Veneto, in cui la legislazione era più restrittiva. Esisteva altresì una convenzione fra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio per mutui lasciapassare abbastanza informali, da e verso il porto-franco di Livorno, in quanto questo era il porto principale utilizzato dallo Stato Pontificio, per concessione del Granducato. Durante il periodo di carnevale, poi, i controlli erano ancora più allentati, in tutti gli Stati della penisola.

Ma Don Francisco trovò una soluzione migliore. Noleggiò un brigantino battente bandiera sarda, alla fonda nel porto di Livorno, che aveva scaricato merci provenienti dall'America, e che era in cerca di noli per il viaggio di ritorno. Il brigantino, denominato Coccodrillo, era omologato per il trasporto di merci, ma poteva essere facilmente adattato al trasporto di passeggeri. Per quella nave, il capitano non era tenuto a depositare alla capitaneria del porto di Livorno la lista dei passeggeri, in quanto, formalmente, non doveva averne. ……………………

Così dava notizia della partenza da Livorno della troupe di Don Francisco il Giornale di Commercio del Porto-Franco di Livorno del 7 ottobre 1835:

il dì 5
Per l'AVANA, Brig. Sardo il Coccodrillo,
capit. Bartolommeo Lombardo con div. articoli.

Come si può vedere, nessuna menzione degli 81 passeggeri. Al contrario, così dava notizia (con due piccoli errori di stampa) dell'arrivo della troupe di Don Francisco il giornale El Noticioso y Lucero dell'Avana, il 17 dicembre 1835:

PUERTO DE LA HABANA
ENTRADAS DE AYER
De Liorna en 72 días berg. sardo
Coccodrill, cp. Lombardo, ton. 275, en
lastre, á los Sres. Mariátegui K. y cpª
- Passag. 81 individos de la compañia
de ópoera italiana para esta ciudad.

……………………………

Era ancora buio, alle tre e mezza del mattino, ora dell'appuntamento, in piazza S. Maria Novella, con le carrozze che dovevano portare a Livorno una trentina di scritturati da Don Francisco, residenti a Firenze. Gli altri sarebbero arrivati da altre città. A quell'ora, l'aria aveva un sapore curioso. Sapeva di pane appena sfornato e di ricotta calda, appena messa nelle fascelle di paglia. Probabilmente perché quello era il viatico che molti partenti avevano ricevuto dalle amorevoli mani di mamme e sorelle, oppure dalle mogli, rimaste a casa a curare i bambini. Quasi nessuno aveva portato molto bagaglio con sé: uno o due pratici valigioni di cuoio, a testa, con la tipica chiusura a scatto. Ma sul retro delle carrozze si notavano anche lussuosi bauli, coperti da un telone e legati con robuste corde agli chassis. Chissà di chi erano…

Antonio ed Ester avevano salutato i propri cari nelle rispettive dimore, dissimulando con frasi di circostanza il dolore del distacco. Sostarono un momento vicino alla fontana che era stata il muto testimonio del loro primo incontro, forse per attingere da essa un pò più di coraggio, forse per lasciarle un ultimo messaggio che, col suo sussurro perenne, potesse ripetere alla loro città.

Partite da S. Maria Novella, le carrozze imboccarono il ponte della Carraia e di lì si diressero alla Porta di S. Frediano, lasciando Firenze verso la Via Pisana. Antonio non poté fare a meno di ripensare alle sue esperienze di aiuto portiere, passando da quella porta. Belle e brutte. Ora che lasciava Firenze gli sembravano tutte belle, come bella era la sua Firenze. Per tutto il tragitto, nessuno ebbe voglia di parlare, e comunque, ci sarebbe voluto un bel pò di voce per farla emergere dallo scrosciare degli zoccoli dei cavalli e dal martellare incessante delle ruote sulla strada. Dopo sette ore, intervallate da tre brevi soste alle stazioni di Posta, per il cambio dei cavalli, giunsero in vista del porto di Livorno, dove al postiglione non fu difficile localizzare e raggiungere la banchina dove era attraccato il Coccodrillo.

La gente di teatro non è minimamente emozionata dai viaggi. Vi è abituata, come lo erano gli artisti della ricercatissima Opera Italiana. Il Coccodrillo navigava già al largo con le vele gonfie di vento. Le basse costruzioni del porto di Livorno che venivano inghiottite dall'orizzonte d'oriente, su cui stava calando dolcemente quella sera di ottobre, erano, per quegli speciali passeggeri, quasi come le scene ben disegnate di un teatro; e le murate del Coccodrillo come le balconate di un ordine di palchi da cui godersi lo spettacolo. Alla Pergola si facevano cambi di scena persino più emozionanti. Però, però… quel forte profumo di mare portato dal vento… era un pò troppo speciale… Ma si poteva tentare di imitare anche quello, purché fosse nel repertorio degli effetti speciali. Si poteva chiedere al signor Meucci…

Il signor Meucci stava conversando col capitano, Bartolommeo Lombardo. Meucci aveva notato una decina di cannoni, cinque per fiancata, e seppe dal capitano che erano mantenuti a scopo difensivo, specie sulle rotte atlantiche, ancora infestate da pirati, ma che non avrebbero dovuto essere usati, essendo la rotta protetta dall'Armada, cioè dalla marina spagnola. Tra l'altro, la parola brigantino derivava dal fatto che era una nave da combattimento molto usata dai pirati (cioè dai briganti), data la grande velocità che poteva sviluppare, grazie alla sua eccezionale invelatura. Il Coccodrillo era lungo 24 metri, pesava 150 tonnellate e poteva caricare 10 cannoni ed un equipaggio di 100 uomini. La sua velocità media, sulla rotta complessiva da Livorno all'Avana, fu di 3,5 nodi (un nodo equivale ad un miglio marino all'ora), cioè di 84 miglia marine al giorno; ciò significa che, sulla rotta atlantica battuta dagli alisei, furono raggiunte ed anche superate velocità dell'ordine di 6-7 nodi. Le sue doti di velocità, tuttavia, richiedevano perizia ed abbondanza di uomini di equipaggio, tanto è vero che si diceva che in un brigantino si lavorava come in due velieri normali.

……………………………

Dopo un giorno di navigazione, avevano doppiato Capo Corso. Per tutto il giorno successivo, i passeggeri poterono ammirare - a babordo - la folta e verdissima vegetazione della costa settentrionale della Corsica.

Lasciata la Corsica, navigarono in mare aperto per cinque giorni, entrando in quel particolare stato d'animo di "solo, fra cielo e mare", che ben conoscono i marinai, e che invece è una piacevole sorpresa per gli uomini di terra, sia di campagna che di città.

…………………………………

Ester, durante tutto il viaggio, fu indaffarata a cucire, persino più di quanto lo fosse stata alla Pergola. Infatti, quasi tutte le cantanti scritturate - anche quelle non all'altezza del numero uno, Balbina Steffenone - le chiedevano di aggiustare vestiti e costumi, sottoponendosi ad interminabili prove, in ciò agevolate dalla lunga durata del viaggio. Ci mancavano anche gli uomini, a darle altro lavoro! Infatti, facevano parte della troupe il famoso basso Ignazio Marini ed il grande baritono Cesare Badiali e tutti, guarda caso, avevano qualcosa da sistemare nel loro guardaroba. Fu raggiunto l'acme del dramma quando, per bocca del comandante, si seppe esattamente quale clima li attendeva all'Avana: un inverno molto simile a una mite estate italiana! I bauli furono messi sottosopra dalle rispettive proprietarie e altri vestiti, più leggeri, volarono fuori da dove stavano accuratamente riposti, ad aumentare il numero dei capi da ritoccare. Qualche signora giunse persino a presentarsi nella cabina di Ester con in mano una pezza di stoffa, per farsi cucire un vestito nuovo! Per contro, vi è da dire che quelle speciali clienti non badavano a spese, anzi, erano prodighe di mance e di regali, al di là del puro importo della fattura.

………………………………………………

Ora il Coccodrillo puntava decisamente a sudovest, sperando di raggiungere lo stretto di Gibilterra in una settimana. Poi, dopo un'altra settimana e mezza, avrebbe attraccato a Gomera, nelle Canarie, seguendo la rotta inaugurata da Cristoforo Colombo e seguita da gran parte dei velieri diretti in America centrale e meridionale. Se anche fosse stato vero che Colombo aveva fatto ripetutamente scalo a Gomera per incontrare la bella Beatrice de Bobadilla, quello scalo costituiva comunque un'ultima occasione - prima di fare il grande balzo verso l'altra sponda dell'Atlantico - per rifornirsi di acqua dolce, verdura fresca, banane e legna per la cucina, a prezzi molto buoni.

Le Isole Canarie erano, e sono, possedimento spagnolo, a differenza delle isole Azzorre, l'isola di Madeira e le isole di Capo Verde, che erano, e sono, possedimento portoghese. Sebbene fosse abbastanza indifferente far scalo nell'una o nell'altra delle isole suddette, l'uso era di mantenersi, per così dire, sotto la stessa bandiera, lungo tutta la rotta.

Appena salpati da quell'ultimo scalo delle Canarie, cominciò a farsi sentire la favorevole spinta degli alisei, i grandi alleati di Cristoforo Colombo e di tutti i navigatori a vela che gli succedettero sulle rotte atlantiche verso occidente. Questi venti spirano costantemente da nordest a sudovest, facendo, così fortemente diminuire la durata della traversata atlantica. Così, dalle Canarie, poste a circa 28° di latitudine nord, fino all'Avana, posta a circa 23° di latitudine nord, si sarebbe viaggiato costantemente col vento in poppa, per tutte le sei settimane di navigazione, che occorrevano per attraversare l'Atlantico e giungere in vista del banco delle isole Bahama, che, in un certo senso, era l'anticamera della regina delle Americhe: La Habana.

Nonostante le precauzioni e le raccomandazioni poste in atto dal Capitano Lombardo, in previsione di eventuali tempeste durante la traversata, il tempo fu abbastanza clemente, salvo che in due o tre occasioni, durante le quali il robusto brigantino fu investito da vento di libeccio a circa 30 nodi, con mare forza sei, per cui si dovettero prontamente ammainare le vele e… ballare per una quarantina di minuti. Nando, il simpatico nostromo del Coccodrillo - napoletano verace - vedendo molti passeggeri terrorizzati, e con le nocche bianche attanagliate ai mancorrenti, si esibì in una mini sceneggiata, molleggiandosi sulle gambe - allargate quanto bastava per mantenersi in equilibrio - e con le braccia ripiegate sui fianchi come Pulcinella. "E vvuie - diceva, ridendo, rivolto ai passeggeri - lasciatevi dondolàare!……"

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Attraversarono il banco delle Bahama al Passo Mariguana, sia per evitare di incagliarsi su qualche basso fondale, sia per portarsi subito sotto costa all'isola di Cuba, sotto la protezione della marina spagnola e dei forti della costa. Per giorni e giorni Bertu continuò a scandagliare il fondo, in modo da consentire al Coccodrillo di navigare sullo scandaglio, cioè di mantenersi su una rotta in cui il mare fosse almeno profondo quanto tutto lo scandaglio, cioè cento metri. Gli alisei erano cessati e ad essi era subentrata la ben nota bonaccia delle Antille. Dal Passo Mariguana dovettero navigare ancora per una settimana, per coprire, alla velocità media di 4 nodi (poco meno di cento miglia al giorno), tutte le seicento miglia della costa settentrionale dell'isola, prima di entrare in vista della sospirata meta.



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Date last modified: 7 May 2003

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